La “Primavera” del Botticelli: la spiegazione dell’opera in chiave neoplatonica
Sandro Botticelli fu uno dei maggiori pittori tra il primo e il secondo Rinascimento. Il suo nome era Sandro di Mariano Filipepi; il soprannome “Botticelli” o “del Botticello”, gli venne dall’orefice presso il quale fece i primi passi nell’arte. Nato a Firenze nel 1445, fu allievo di Filippo Lippi, poi di Andrea del Verrocchio. Nel 1475 godeva già i favori della famiglia Medici, per la quale eseguì opere insigni, ispirate all’umanesimo che in quella Corte era rappresentato soprattutto dal Poliziano. Morì a Firenze nel 1510. Botticelli fu indubbiamente l’artista più intimamente legato alla cultura neoplatonica, che conobbe vivendo a diretto contatto con i filosofi e gli intellettuali dell’Accademia platonica di Careggi, fondata a Firenze nel 1462 da Marsilio Ficino, diventandone l’interprete insuperabile degli ideali.
Secondo i principi del neoplatonismo, l’uomo occupa una posizione centrale e privilegiata nella scala degli esseri che discende da Dio. Perciò l’uomo ha l’opportunità di raggiungersi con l’Ente Supremo, sempre che riesca a liberare il proprio spirito dalla materia e a raggiungere l’armonia universale. La bellezza, intesa come riflesso di quella divina, e l’amore, sono la via per intraprendere questa ascesi. L’influenza che il neoplatonismo ebbe sul Botticelli è fondamentale per comprendere la sua pittura, che si propone di rappresentare il bello ideale, depurando le forma da ogni troppo accidentale naturalismo. In questo senso va intesa “La Primavera”, uno dei due capolavori degli Uffizi, insieme alla “Nascita di Venere”. Non a caso in entrambi i dipinti emerge la figura mitologica di Venere, la dea dell’amore, che simboleggia l’armonia universale e l’insieme delle qualità più elevate dello spirito alle quali l’uomo deve ambire. L’amore profano viene quindi sublimato in amore spirituale, come forza vitale che anima tutte le attività morali e intellettuali dell’uomo, dirigendolo naturalmente verso il bene e la virtù.
“La Primavera”, eseguita nel 1480 circa, è una tempera grassa su tavola di legno di pioppo di cm 207 x 319, conservata nella Galleria degli Uffizi di Firenze. La tecnica usata nel dipinto è estremamente accurata, a partire dalla sistemazione delle assi di notevoli dimensioni che, unite tra loro, formano il supporto. Su di esse Botticelli stese una preparazione diversificata in base alle diverse parti: nocciola chiaro dove vennero dipinte le figure e nera per la vegetazione. Su di essa il pittore stese poi la colorazione a tempera in strati successivi, arrivando a effetti di grande leggerezza.
Forse una delle caratteristiche più affascinanti della Primavera è l’alone di mistero che avvolge ancora l’opera, a dispetto di tanti studi e ricerche. Incerte risultano infatti la committenza e la datazione, come pure il significato recondito che sembra celarsi dietro la rappresentazione personificata della prima stagione dell’anno e del suo incontaminato giardino. In realtà tanto il soggetto “mitologico”, quanto la complessità dei rimandi letterari e filosofici che vi sono sottesi, ci assicurano che il dipinto non fu concepito per una destinazione pubblica, bensì privata. Chiunque sia l’ignoto committente, è certo dovette trattarsi di un personaggio molto colto e raffinato, in grado di apprezzare e suggerire un programma iconografico che anche ai contemporanei doveva apparire in qualche modo oscuro e non immediatamente comprensibile. Probabilmente il dipinto venne eseguito per Lorenzo di Pierfrancesco de' Medici (1463-1503), cugino di secondo grado di Lorenzo il Magnifico di circa quindici anni più giovane. Gli inventari di famiglia del 1498, 1503 e 1516 hanno comunque chiarito la sua collocazione originaria, nel Palazzo di via Larga, dove rimase prima di essere trasferita nella Villa di Castello nel 1537, passata poi a Cosimo I de’ Medici per via ereditaria, dove la vide Giorgio Vasari nel 1550, accanto alla Nascita di Venere, realizzata nel 1485.
La Primavera palesa l’interesse di Botticelli per le possibilità espressive della linea, in sintonia con quanto nello stesso periodo andavano sperimentando scultori come Verrocchio e Pollaiolo. Il soggetto è tratto dalle Metamorfosi di Ovidio. L’opera pittorica mostra nove figure della mitologia classica che incedono su un prato fiorito, davanti a un bosco di aranci e alloro. La lettura del quadro inizia da destra, dove Zefiro, il vento vivificatore della natura, splendidamente raffigurato da Botticelli con le guance enfiate e in toni freddi e bluastri, insegue la bella ninfa Clori, di cui si è invaghito. Una volta possedutala, Zefiro concede a Clori la facoltà di germinare fiori, effetto che l’artista visualizza nella cascata di rose che le esce dalla bocca; dall’unione con Clori nasce Flora, immagine della fecondità e del risveglio della fioritura e, quindi, divinità emblematica della Primavera. Questa, dall’aereo vestito fiorito, avanza nella tavola verso l’osservatore, con un intercedere dolcissimo mentre sparge a terra i boccioli di rosa che tiene raccolti in grembo; dal suo seminare germogliano altrettanti fiori. Al centro della composizione sta Venere, la dea dell’amore e della fecondità: sollevata rispetto agli altri personaggi, questa sembra riaffermare la propria posizione centrale e dominante nella composizione. Sopra Venere, Cupido bendato scocca il dardo d’amore. A sinistra danzano armoniosamente in cerchio le tre Grazie, intrecciandosi con le dita; chiude l’opera Mercurio, il messaggero degli Dei con indosso elmo e calzari alati, che disperde le nuvole col caduceo, simbolo di pace e di conciliazione tra gli opposti. Le figure, nel loro insieme, si compongono in un fregio, con un ritmo morbido e quasi musicale che traduce il movimento in una danza che ingentilisce e alleggerisce le forme. Questo movimento, essenziale nell’universo di Botticelli, è impresso soprattutto dal contorno delle figure, che assume maggior importanza rispetto al volume. Pur rimanendo misterioso il complesso significato della composizione, l’opera celebra l’amore, la pace, la prosperità. La vegetazione, il cui colore scuro è in parte dovuto all’alterazione del pigmento originale, è rischiarata dall’abbondanza di fiori e frutti. Come emerge dal sito ufficiale della Galleria degli Uffizi «Sono state riconosciute ben 138 specie di piante diverse, accuratamente descritte da Botticelli servendosi forse di erbari. La cura per i dettagli conferma l’impegno profuso dal maestro in quest’opera, confermato anche dalla perizia tecnica con cui è stata realizzata la stesura pittorica».
A questo punto viene da domandarsi: qual è il significato morale di questa antica leggenda magistralmente raffigurata su tavola? E in che chiave si può leggere la Primavera del Botticelli?
In parte ho già dato una risposta, quando all’inizio ho scritto in che modo il Botticelli fosse indubbiamente l’artista più intimamente legato alla cultura neoplatonica e come l’influenza che il neoplatonismo ebbe su di lui è fondamentale per comprendere la sua pittura, che si propone di rappresentare il bello ideale, depurando le forma da ogni troppo accidentale naturalismo. Ma voglio approfondire il concetto citando quanto Aby Warburg ha scritto nel suo libro «Sandro Botticellis “Geburt des Venus” und “Frühling”, 1983», tradotto in italiano in La rinascita del paganesimo antico, Firenze, 1966. Warburg si era reso conto di come al fondamentale assunto ovidiano, l’anonimo estensore del programma iconografico avesse aggiunto una molteplicità di altri fonti antiche e moderne, contaminandole tra di loro. Si va dal De rerum natura di Lucrezio, alle Odi di Orazio, ai Fasti di Ovidio, fino alle celebri Stanze (I, 68-92) composte da Poliziano nel 1475: in esse si dice infatti che la Primavera è “ove ogni grazia si diletta, / ove Biltà di fiori al crin fa brolo ogni Grazia si diletta, / ove tutto lascivo, drieto a Flora, / Zefiro vola e la verde erba infiora”. (Dove ogni Grazia si diletta, dove la Bellezza fa una ghirlanda di fiori sui capelli, dove Zefiro, tutto lascivo, vola dietro a Flora e riempie di fiori l'erba verde). Il fatto poi che al centro della composizione si trovi non Flora-Primavera, ma Venere, ha indotto lo studioso a elaborare una lettura del dipinto in chiave di allegoria neoplatonica, chiave che con diverse varianti perdura ancora fino ad oggi.
L’argomentazione fra Bellezza esteriore e Bellezza spirituale, tra Amore profano e Amore Sacro, cara agli umanisti dei circoli intellettuali medicei, verrebbe a costituire, secondo Gombrich l’intimo significato iconologico del quadro (Ernst Gombrich, Botticelli's Mythologies: A Study in the Neoplatonic Symbolism of His Circle, in “Journal of the Warburg and Courtauld Institutes “: pagg. 7-60, 1945). Seguendo la linea interpretativa di Warburg, Ernst Gombrich, (citando una lettera mandata da Marsilio Ficino, il più importante rappresentante del circolo filosofico neoplatonico fiorentino, al giovane Lorenzo), ritenne che la Primavera, per lui eseguita verso il 1478 quando Lorenzo di Pierfrancesco aveva quattordici anni, svolgesse una funzione educativa nell’indirizzare il giovane verso la Venere spiritualizzata e morale, cioè verso l’“Humanitas”, e nell’allontanarlo dai piaceri della Venere terrena, carnale.
Esaminando Gombrich, lo storico dell'arte interdisciplinare tedesco Edgar Wind e specializzato nell'iconologia del Rinascimento, nel 1958, ha individuato nella Primavera del Botticelli altre condizioni allusive a un compromesso allegorico fra mondo umanistico pagano e mondo cristiano. Per lui il dipinto simboleggerebbe addirittura la catarsi dell’anima, che si eleverebbe al cielo transitando dall’amore terreno e passionale (Zefiro-Clori), l’amore intellettuale e razionale (Venere-Humanitas-Cupido), per arrivare all’amore casto e spirituale (Grazie-Mercurio). In tal senso grande rilievo acquista la figura finale di Mercurio, simbolo della ragione e del buon consiglio, il cui compito sarebbe quello di accudire il realizzarsi di questa catarsi ed impedire che le nubi della passione e della sregolatezza umana prendano il sopravvento.
Giuseppe Frascaroli