Il Classicismo nel XVII secolo, l’Epoca del Barocco
Nel corso del Seicento si andò diffondendo una nuova sensibilità figurativa, definita “Barocco”; questa nuova espressione artistica fu appoggiata dalla Chiesa di Roma, affidandole il compito di comunicare in forme grandiose i valori politici e religiosi che ne legittimavano il potere. Il barocco fu l’arte della Controriforma trionfante che usciva dalla severità e dal tetro rigore tridentino per esaltare le proprie glorie insieme alla potenza della fede riformata; fu l’arte delle grandi famiglie principesche che nelle ville e nei palazzi esibivano con ansia quasi smodata il fasto della loro posizione. L’arte barocca si rivelò quindi particolarmente adatta a tradurre visivamente l’allusione al potere, sia politico che religioso.
Nell'elaborazione teorica del Barocco grande risalto viene ad assumere la riflessione sulla Poetica di Aristotele, che propone nuovi modi di comprendere l’assunto di imitazione, fino ad assimilarlo a quello di “finzione”. L'attenzione agli intenti persuasivi dell'attività creativa conduce inoltre all'affermarsi di un ideale retorico dell'arte, al quale viene informata la ricerca dei più svariati elementi espressivi e stilistici: il barocco è contraddistinto dal movimento grandioso delle masse, dall’audacia degli scorci prospettici, dall'efflorescenza decorativa, dai giochi di luce, dall’amplificazione, dalla torsione, dalla ricerca dell'arguzia, della sorpresa, come la lievitazione del piano semantico e simbolico.
Il Barocco è la continuazione logica del Manierismo del Tardo Rinascimento, che ne è la premessa. Se questo esprime la crisi della società rinascimentale, l’angoscia del dubbio, l’urto fra la Riforma protestante e la Controriforma cattolica, il Barocco è l’arte del trionfo controriformista e dell’assolutismo sovrano, come prima enunciato.
Nella Roma della Controriforma però, le più illustri famiglie della nobiltà romana, come i Borghese, gli Aldobrandini, i Ludovisi, i Barberini e altre (famiglie dalle quali provenivano anche papi e alti esponenti del clero), avevano iniziato a maturare, in privato, un notevole interesse per l'antichità classica. Molti avevano cominciato anche ad allestire collezioni di reperti archeologici: in particolare i Farnese crearono una ricchissima collezione di statue antiche. Per ospitarle, fecero costruire un'apposita Galleria nel loro palazzo romano (Palazzo Farnese) e affidarono al pittore bolognese Annibale Carracci (Bologna, 1560 - Roma, 1609) l'incarico di decorarla ad affresco. Agli affreschi della Galleria Farnese, un ambiente di Palazzo Farnese a Roma, opera di Annibale Carracci portata a compimento, in più riprese, tra il 1597 e il 1606-1607, contribuirono anche Agostino Carracci, fratello di Annibale, e, successivamente, alcuni allievi dello stesso Annibale, tra i quali il Domenichino. Questi affreschi si ergono a modello di una nuova misura classica, alternativa al vuoto decorativismo degli ultimi manieristi come al radicale naturalismo di Caravaggio e dei suoi. Fu questa la committenza che sancì di fatto la nascita del classicismo seicentesco e che iniziò a delineare i dettami del gusto classicista che avrebbe dominato tutto il Seicento romano e che avrebbe conosciuto, oltre a Roma, un altro importantissimo centro di diffusione, ovvero Bologna, da dove provennero pressoché tutti gli artisti classicisti delle prime generazioni.
Nonostante l’affermazione sempre più decisa nel corso del Seicento dello stile barocco con i suoi effetti magniloquenti ed illusionistici, una compatta compagine di artisti osò contrastare questa corrente di pensiero conferendo nuovo vigore e nuova interpretazione alla tendenza razionale classica. Pittori quali Andrea Sacchi, e scultori come Alessandro Algardi e François Duquesnoy continuarono ad affermare, in nome del classicismo, il principio dell’ordine basato sulla misura e sull’equilibrio.
Nel corso del Seicento si consolidano quindi quelle tendenze classiciste incentrate sulla bellezza ideale che culmineranno nel Settecento con la riflessione di Johann Joachim Winckelmann, famoso storico dell’arte e archeologo considerato fra i massimi teorici ed esponenti del neoclassicismo.
In questo secolo il classicismo, oltre agli artisti sopracitati, è stato brillantemente sposato dai Carracci, come abbiamo visto, e conobbe un'importante codificazione teorica nell'opera di Giovan Pietro Bellori; Nicolas Poussin e Claude Lorrain furono invece nello stesso secolo gli esponenti più significativi del classicismo francese; con questi due ultimi, la pittura di “paesaggio ideale” rappresentata già dall'ultima produzione di Annibale con la Fuga in Egitto si sviluppò ulteriormente. La corrente pittorica che si rifaceva ai Carracci fu molto più numerosa di quella dei seguaci del Caravaggio. Rispetto ai caravaggisti, i discepoli del Carracci dovevano tutti la propria formazione all'Accademia degli Incamminati a Bologna e dunque costituirono una vera “scuola”, che poteva contare su laute committenze. Tra i primi discepoli di Annibale Carracci che giunsero a Roma, si segnalano il Domenichino (Bologna, 21 ottobre 1581 - Napoli, 6 aprile 1641) e Guido Reni (Bologna, 4 novembre 1575 - Bologna, 18 agosto 1642). Quest’ultimo, che si può considerare il caposcuola del Classicismo seicentesco, fu allievo dell’Accademia dei Carracci, ma si mosse sin dall’inizio con notevole autonomia rispetto al gruppo di artisti bolognesi raccolti intorno ad Annibale, dedicandosi allo studio dell’antico e di Raffaello, che perfezionò nei suoi primi viaggi a Roma, dove si avvicinò alle sperimentazioni del Caravaggio, che furono determinanti per la formulazione della sua poetica. Pervenne così a una sorta di classicismo integrale, che riproduce l’esperienza dell’antico e del Rinascimento con toni di appassionata nostalgia, attraverso un linguaggio severo, di grande eleganza, ma nello stesso tempo nutrito di robusto naturalismo. Il purissimo stile di Reni è caratterizzato da un elegante classicismo che conduce, attraverso una notevole cura formale e un saldo equilibrio compositivo, a opere in cui le emozioni sono controllate e proiettate in un piano ideale. L’ideale classico di Reni ben si esprime in “Atalanta e Ippomene” (nella foto), un olio su tela di cm 192 x 264, eseguito tra il 1620 e il 1625, conservato nel Museo di Capodimonte di Napoli. Esiste anche una seconda versione identica del tema, di maggiori dimensioni (cm 206 x 297) eseguita tra il 1618 e il 1619, esposta presso il Museo del Prado di Madrid.
“Atalanta e Ippomene” è forse il quadro più celebre di Guido Reni, sia per la rarità del soggetto che per lo straordinario livello qualitativo. Il dipinto raffigura fedelmente l’episodio mitologico della sfida tra la ninfa Atalanta e il giovane Ippomene che voleva conquistare il suo cuore. L’avvenente ninfa, atleta e cacciatrice formidabile, proponeva ai suoi numerosi spasimanti una gara di corsa: si sarebbe data in sposa solo a chi l’avesse sconfitta. Ippomene riuscì a vincere la corsa perché lungo il percorso lasciò cadere tre pomi d’oro, dall’irresistibile fascino amoroso; Atalanta, chinandosi per raccoglierli, rimase indietro perdendo così la gara.
La composizione di questo dipinto è tra le più equilibrate della pittura di tutti i tempi. Nel fissare l’attimo in cui Atalanta perde la sfida, Reni costruisce la scena sulle pose simmetriche, ma non esattamente speculari, dei due giovani, in un gioco studiatissimo di ortogonali incrociate. La tela risplende della purezza classica delle figure, quasi nude e bloccate in pose scultoree; la combinazione perfetta dei movimenti, appena velati da lucenti drappi, crea un’armonia quasi musicale, un equilibrio che ha il suo diretto precedente nella pittura di Raffaello. Le figure spiccano su un fondo scuro, che avvolge parzialmente il viso e la spalla destra di Ippomene; vi si coglie un evidente retaggio del tenebrismo caravaggesco, che Reni seppe magistralmente inserire in un insieme di così squisita sobrietà.
Gli stimoli caravaggeschi, neoraffaelleschi e carracceschi si fondono qui in un classicismo impeccabile, che rinnova l’ideale apollineo della statuaria antica, ma che non ha mai nulla di accademico. Reni è abilissimo nel ridurre la tavolozza cromatica a pochi colori essenziali, di cui si privilegiano tonalità fredde e preziose.
Verso la fine della sua lunga carriera, a partire dagli anni Trenta del Seicento, Guido Reni seppe rinnovare il suo linguaggio artistico affidandosi a una stesura pittorica sempre più sfaldata ed evanescente, in cui dominano soffusi accordi dal riflesso argenteo, come nella sua bellissima “Adorazione dei Pastori”.
Claude Gellée, detto Le Lorrain e in Italia noto anche come il Lorenese (Champagne 1600 - Roma 1682), è un pittore francese che visse e operò quasi esclusivamente a Roma, dove si era trasferito già nel 1613. Claude Lorrain fu un vero maestro nel rappresentare la bellezza della natura (Paesaggio con il tempio della Sibilla, Tivoli). Sensibile al fascino e all'atmosfera della campagna romana e delle sue rovine, crea un tipo varietà e dell’incanto della natura, evocata attraverso la storia e il mito: Veduta di Campo Vaccino a Roma (Parigi, Louvre), Agar e l'angelo (Londra, National Gallery), Narciso ed Eco (Londra, National Gallery), Pastorale (Birmingham, City Art Gallery). Scrive lo storico dell'arte e accademico austriaco naturalizzato britannico Ernst Gombrich: «quasi un secolo dopo la sua morte, i viaggiatori giudicavano ancora secondo i suoi canoni un tratto di paesaggio reale. Se esso ricordava loro una visione di Lorrain, lo trovavano delizioso e ci facevano una sosta. Ricchi inglesi arrivarono al punto di adattare parchi e tenute ai sogni di bellezza di Claude, e molti angoli della deliziosa campagna inglese dovrebbero ancora oggi recare la firma dell’artista francese» (Gombrich, 1989, p. 379). Lorrain, infatti, è considerato il maestro del “paesaggio ideale”: i punti focali delle sue opere sono la luce e le suggestioni. Anche se lo studio e l’impressione dal vero sono le basi dei paesaggi del Lorenese, vengono poi ricomposti entro scenari ideali in cui la visione si dilata fra quinte architettoniche e grandi gruppi di alberi. Le composizioni sono pervase da una luminosità chiara e diffusa che contribuisce a creare un’atmosfera idilliaca e pacificata. La presenza nelle sue tele di monumenti antichi e rovine, insieme a figure umane dall’abbigliamento classicheggiante, proiettano la visione di un’indefinita lontananza temporale, circondata di suggestioni poetiche che rinviano al mito latino dell’Arcadia. L’epitaffio sulla sua tomba reca la scritta: «Rappresentò in modo meraviglioso i raggi del sole all’alba e al tramonto sulla campagna».
Nicolas Poussin, nato a Les Andelys in Normandia nel 1594, deceduto a Roma nel 1665, può essere considerato uno dei più grandi pittori che abbia vantato la Francia nel XVII secolo. Di piena impostazione classica, da Roma, sua patria d’adozione, nutrito nello studio dei grandi maestri, esaltato dal fascino della sua storia e della grandezza delle sue rovine, fece rinascere nei suoi aspetti poetici ed ideali il mondo pagano, suscitando nell’arte italiana e francese un nuovo ritorno al classicismo e al mito: mosso da un’acuta nostalgia del mondo antico, Poussin fu sensibile e raffinato interprete di temi storici e mitologici, nei quali vi proiettava gli ideali di chiarezza, logica, ordine e semplicità che informavano anche la scienza e la filosofia dell’epoca. Fino a tutto il XX secolo fu il riferimento prevalente per artisti con orientamento classicista, come Jacques-Louis David, Ingres e Nicolas-Pierre Loir. Una profonda concezione del paesaggio di impianto classico, uno spirito assorto nel mondo degli Dei e degli Eroi della mitologia, una plasticità scultorea, una salda costruzione architettonica sono i pregi principali della sua arte, che gli assicurarono una fama europea.
Poussin, dopo l'apprendistato a Rouen e a Parigi, fu interessato allo studio dei manieristi di Fontainebleau, di Raffaello e della sua scuola con molteplicità di interessi che lo indussero ad approfondire la prospettiva, l'anatomia, l'architettura. Nel 1624 lasciò la Francia e raggiunse Bologna, dove conobbe il rinnovato classicismo dell'accademia dei Carracci e di Guido Reni. Il gusto barocco che andava maturando nella Roma di quegli anni (dove giunse nel 1625), unito all'esperienza del cromatismo di Tiziano, lo indusse a un pittoricismo che avvicina le opere del primo periodo romano (due Baccanali di putti, Roma, collezione Incisa della Rocchetta; Martirio di S. Erasmo, Vaticano, Pinacoteca Vaticana) a quelle di Pietro da Cortona.
Il decennio tra il 1630 e il 1640 segnò il definitivo abbandono di ogni tendenza barocca per una rimeditazione attraverso la ricerca di razionale chiarezza e di archeologica precisione. I mirabili paesaggi caratterizzarono la fase estrema della sua attività con il “Paesaggio con Polifemo” (San Pietroburgo, Ermitage); “le Quattro stagioni” (1660-64); il “Paesaggio con Orfeo ed Euridice” (Parigi, Louvre). In queste opere si avverte una profonda concezione del paesaggio di impianto classico che dimostra l’influenza della pittura tonale dei maestri veneti del Cinquecento, uno spirito assorto nel mondo degli Dei e degli Eroi della mitologia, una plasticità scultorea, una salda costruzione architettonica sono i pregi principali della sua arte, che gli assicurarono una fama europea. Nella “Guida pittorica” di Alessandro Petti, la poetica di Nicolas Poussin trova la sua identità in una descrizione nitida, indicando il pittore francese come colui che nel pieno spirito classicista «predilegea massimamente le bellezze espressive poiché mostravano il linguaggio del pensiero e del sentimento e perciò ricercava nell’antico quella bellezza ideale o intellettuale» (A. Petti, “Guida pittorica ossia analisi intorno lo stile delle diverse scuole di pittura e degli artisti italiani e stranieri”, Stabilimento tipografico di Nicola Fabricatore, Napoli, 1855).
Enormi furono i debiti che la pittura del Seicento ebbe nei confronti di Poussin. La maggior parte degli artisti francesi che lavoravano a cavallo tra la prima e la seconda metà del Seicento furono infatti influenzati dalla sua arte, alcuni in modo più limitato, per una fase della loro carriera artistica, altri in maniera più totalizzante. Tra gli allievi diretti del maestro, Eustache Le Seur portò estreme conclusioni la tendenza classicista, cristallizzandola entro forme pure con colore algido e brillante.